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Intervista con Kathryn Bigelow

di Emanuele Bigi

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4 settembre 2008

Kathryn Bigelow è l'unica regista in concorso alla Mostra di Venezia e per di più con un film virile. Titolo: "The Hurt Locker". Tema: la guerra in Iraq. Per la precisione il lungometraggio si concentra su un gruppo di sodati americani addetti a disinnescare mine durante il conflitto. I protagonisti sono tre giovani attori: Jeremy Renner ("Dahmer"), Anthony Mackie ("We Are Marchall") e Brian Geraghty ("Jarhead"). Un viaggio nella psicologia di questi uomini, volontari, catapultati in un mondo dove il conflitto diventa "droga".

Il film è introdotto da questa citazione. Perché?

Mi ha colpito, l'ho estrapolata da un articolo del New York Times scritto da un premio Pulitzer. Si relaziona all'esperienza diretta del giornalista embedded Mark Boal, diventato poi lo sceneggiatore di "The Hurt Locker", il suo sguardo sulla realtà e il contatto con i soldati ha profuso al film un certo realismo. Ha vissuto sulla propria pelle l'esperienza degli artificieri di cui non se ne parla affatto. Credo che sia proprio questa caratteristica a rendere il film unico. La psicologia dei soldati in Iraq è molto diversa da quella dei colleghi che hanno combattuto in Vietnam, loro erano costretti a vivere la guerra.

L'elemento di dipendenza rientra in parte in alcuni dei suoi film del passato.

Può darsi, generalmente sono molto istintiva nella scelta di un progetto, non cerco di seguire un percorso preciso. In questo caso la dipendenza ha un valore essenziale, appunto rimanda alla natura psicologica dei personaggi stessi.

È da sei anni che non si metteva dietro la macchina da presa, cosa l'ha spinta a firmare la regia di "The Hurt Locker"?

È molto difficile trovare argomenti su cui realizzare un film. Quando Mark è ritornato dal fronte, ci conoscevamo già perché avevamo lavorato su un altro progetto, mi ha raccontato la storia di questi uomini che per me fanno il lavoro più pericoloso del mondo. Mi ha catturato sin dall'inizio, inoltre era una tematica molto vicina all'attualità. In una situazione politica molto importante per gli Stati Uniti mi sentivo quasi responsabile ad affrontare l'argomento.

Secondo lei quando le truppe potranno definitivamente tornare a casa?

Accadrà solo grazie a un uomo, Barak Obama. Con il cambiamento dell'amministrazione americana sono convinta che accadrà. Le guerre sono obsolete e spero che in futuro siano sostituite dalla diplomazia.

I suoi protagonisti sono degli artificieri, i media sembra li abbiano dimenticati. Cosa ne pensa dell'informazione del suo paese?

Recentemente sul New York Times è stato pubblicato un articolo in cui si parlava di quattromila vittime in Iraq, però sono state pubblicate solo cinque o sei fotografie. Questo è sintomo di una situazione che non definisco censura, ma si avvicina molto.

Ritornando al film, quali sono state le difficoltà maggiori che ha incontrato e come ha raggiunto il livello di realismo desiderato?

Devo dire che sono stata aiutata molto dalla sceneggiatura solidissima di Mark, era ricca di dettagli a tal punto da poter aggirare certi ostacoli e ottenere il risultato che vediamo sullo schermo. Anche quando dovevamo rappresentare la controparte irachena abbiamo cercato di essere i più fedeli possibili, giravamo in Giordania ma abbiamo utilizzato dei profughi iracheni.

Come ha scelto i tre attori?

Mi servivano dei volti freschi, per me era importante non attirare il pubblico con delle star, avrebbero trafitto l'autenticità del film.

Però per qualche minuto vediamo in azione anche Ralph Fiennes

Lo conosco da quando abbiamo girato "Strange Days", è inutile dire che è un attore straordinario. Averlo sul set è stata un'opportunità che non potevo lasciarmi sfuggire.

A proposito di "Strange Days", con questo film ha ritratto un forte stato di polizia, trova delle somiglianze con il mondo di oggi?

In parte è stato un film profetico, ci sono parecchi elementi in comune con il 2008, comunque noi siamo più fortunati.


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